TAVOLA ROTONDA PER I 50 ANNI DE il tetto
BRAU Piazza Bellini, 56 - Napoli
1° aprile 2014

Interventi di Pasquale Colella, Guido D’Agostino, Aldo Masullo, Ermanno Rea
Pasquale Colella

Tocca a me, in quanto il più anziano della redazione attuale, ma anche perché rappresento un po’ la
continuità della rivista nell’arco dei suoi 50 anni, rivolgervi un saluto di benvenuto e di
ringraziamento per aver accolto l’invito mio e del comitato direttivo a condividere insieme un
momento di riflessione sulla nostra storia, da cui trarre, anche grazie ai consigli che vorrete darci,
nuova linfa per rinnovarci e continuare.
E’ per me un momento di grande emozione, perché, in qualche modo, mi sento sopraffatto dai
ricordi delle vicende ecclesiastiche e politiche che indussero un gruppo di giovani laureati a
fondare la rivista dopo un lungo travagliato periodo di discussioni e dolorose scelte personali, che il
più delle volte non vennero capite dalle persone più vicine e dagli ambienti che avevamo
frequentato. Quasi tutti provenivamo dalle file della Gioventù di Azione cattolica, dalla Fuci e
dall’Intesa, associazione di politica universitaria dei cattolici, dove avevamo incontrato persone
straordinarie e vissuto esperienze significative, che ci avevano aiutato a guardare la realtà con occhi
e spirito nuovi, facendoci uscire dalla logica, allora dominante, dei modelli unici di pensare ed
agire.
Come ha scritto Ugo Leone su “la Repubblica” la rivista é nata intorno a tre idee principali: Il
Concilio ecumenico Vaticano II, il dialogo tra religioni e culture, Napoli. Tre temi importanti in
quel momento, ognuno a modo suo, degno di riflessione articolata all’interno del gruppo fondatore
e di condivisione con quanti, credenti o non credenti, fossero interessati come noi ad approfondire e
confrontarsi.
Il Concilio si stava celebrando a Roma già dal 1962, ma a Napoli, nella Chiesa napoletana, la sua
risonanza era minima e spesso riguardava solo aspetti esteriori, il più delle volte, poi, prevaleva tra
gli uomini di chiesa un atteggiamento scettico, quando addirittura qualche esponente della gerarchia
ai più alti livelli non provava un certo fastidio per la libertà che si andava affermando nel dibattito
conciliare. La missione che la rivista si era data consisteva nel coinvolgere quanti più era possibile
nella riflessione su quanto si andava discutendo e decidendo dai Padri Conciliari. E per questo fu
anche molto importante in secondo momento la collaborazione con i giovani, provenienti da diverse
esperienze ecclesiali, che frequentavano la Cappella Universitaria di via Mezzocannone, diventata
negli anni della celebrazione del Concilio vaticano II un punto di riferimento per i cattolici
‘conciliari, ma anche per cristiani di altre Chiese incuriositi dal nuovo clima di apertura e dialogo
ed interessati ai cambiamenti in corso nella Chiesa cattolica.
Per quanto riguarda il secondo interesse della rivista, il dialogo tra culture e tra religioni, i fondatori
de “il tetto” prestavano molta attenzione a questo tema, perché avevano sperimentato, soprattutto
negli anni dell’università, la possibilità di confrontarsi con giovani liberali, socialisti e, soprattutto,
comunisti e di lavorare insieme nell’organismo di rappresentanza degli studenti universitari,
provocando, tra l’altro, grande irritazione negli ambienti vaticani e sulla sua stampa. I redattori della
rivista, sulla scia delle loro precedenti esperienze, perciò, non ebbero difficoltà poi a discutere e
confrontarsi soprattutto sul tema dei rapporti tra cristianesimo e marxismo con molti esponenti di
prestigio del partito comunista napoletano e nazionale. In occasione poi del referendum sul divorzio
e della firma del nuovo Concordato tra stato e chiesa molte furono le volte che la rivista si confrontò
senza preclusioni con tutti, assumendo posizioni che non furono per niente apprezzate dalla
gerarchia cattolica locale.
Infine Napoli. L’attenzione per la nostra città è stata ovviamente naturale, obbligatoria, quanto
faticosa e difficile, perché la rivista nasceva a Napoli, su un progetto di napoletani e sull’onda di
esperienze vissute nella città partenopea; esperienze, progetto che, poi, negli anni hanno coinvolto
amici di altre città, non solo meridionali, anche nella fase di ideazione e realizzazione della rivista.
Avviandoci verso il secondo cinquantennio possiamo dire che la rivista “il tetto” è stata come
voleva essere, una rivista di militanza civile e religiosa, tra dissenso e sapere critico, ha difeso i suoi
spazi di libertà, e non sempre è stato facile, ha dato voce a tanti che non avevano altre opportunità
di farsi sentire, ha dialogato con grandi e piccole realtà ecclesiali attraverso incontri pubblici e
privati, lo scambio di pubblicazioni, di documenti, ciclostilati prima, email ora, registrando
attenzione e simpatia nei confronti del nostro lavoro al di sopra delle nostre attese; e questo è un
fatto che ci ha aiutato a superare le difficoltà proprie di una rivista gelosa della propria autonomia,
con poche risorse e, inoltre, che si fa a Napoli, dove purtroppo molte riviste importanti ed autorevoli
hanno dovuto chiudere. Altre considerazioni potrei fare, ma per una questione di tempo, vi invito a
leggere il numero 298 della rivista, l’ultimo del 2013, dove abbiamo fatto il punto sulla nostra
storia ed avanzato proposte per il futuro.
Potrei concludere ricordando gli amici che nel corso degli anni ci hanno incoraggiato e sostenuto
dall’esterno ed i tanti che hanno lavorato in redazione, ma corro il rischio di dimenticarne qualcuno;
allora chiudo ringraziando tutti voi per essere intervenuti e soprattutto gli amici… che hanno
accettato di ricordare con noi la nascita de ”il tetto”, manifestando, pur nella diversità di storie ed
idee, ancora una volta affetto ed attenzione per la nostra rivista.
Guido D’Agostino
Mi hanno chiesto per quale motivo io fossi tra i relatori di questa tavola rotonda, al di là delle volte
che sono comparso come autore sulle pagine della rivista. Oltre a questo io ho immaginato che noi
fossimo come compagni di uno stesso percorso. Io ho diretto e dirigo riviste, strano aggeggio, un
libro sui generis, la rivista ha sempre destino strano, è difficile che una rivista, anche se tocca un
tema monografico, è difficile che riceva la stessa attenzione che invece può ricevere un libro. La
rivista registra un altro tipo di lavoro, una rivista ti impegna in un rapporto in cui c’è anche ansia.
Colella ha ricordato l’esperienza di “Nord e Sud” e al suo declino, di cui non credo di essere
responsabile del declino nonostante lo abbia diretto per alcuni anni, ma come ebbero a dire persone
della famiglia del fondatore di “Nord e Sud” se Compagna avesse saputo della direzione di
D’Agostino si sarebbe rivoltato nella tomba. Io non so se ciò è successo, perché sarei dovuto essere
nella tomba con lui, ma il fatto che fosse passata nelle mani di un ritenuto estremista pericoloso la
dice lunga su certe vicende e su come potevano incidere sulla vita culturale della città. Quando
sempre per effetto di una causa lunghissima, la famiglia Compagna ritirò all’editore la facoltà a
pubblicare la rivista sostenendo che fosse di proprietà della rivista, l’editore immaginò di fare
un’altra rivista “Sud e nord”, ma mettendoci davanti il nome Meridione, facendola diventare
“Meridione. Sud e Nord” del mondo, che vive ormai da undici anni io dirigo. Comunque
l’esperienza di “Nord e Sud” è stata per me molto impegnativa, un fascicolo ogni mese, a proposito
dell’ansia che prende a chi dirige una rivista, l’ansia di intercettare le idee, vedere il mondo che
cambia, quello che tu sei capace di capire del mondo che cambia. Le tre riviste prima nominate da
Pasquale Colella, “Nord e Sud”, “Cronache meridionali”, “il tetto”, non solo rappresentano un
momento straordinario della vita politica e culturale della città, rappresentano nella forma di rivista
una cosa preziosissima che abbiamo visto soltanto alla Costituente e poi nella carta costituzionale,
cioè le tre grandi culture del nostro paese, per non dire dell’Occidente, quella liberal-democratica,
quella marxista e quella cattolica che per decenni, e “il tetto” continua a farlo, hanno rappresentato
non so con quanta consapevolezza però questa cosa va anche al di là se uno la faceva con
intenzione, rappresenta una sorta di proseguimento di questa straordinaria esperienza che dalla
Costituente e dalla Costituzione aveva fatto vedere una cosa: non solo quelle tre culture che
innervano la nostra storia culturale, ma anche il modo in cui ciascuna di queste culture si rapportava
non solo al mondo, ma anche alle altre due culture presenti. Allora io devo dire una cosa, una cosa
che non è a favore de “il tetto”, vedendole tutte e tre queste esperienze nel loro sviluppo, vedete
“Nord e Sud” lamalfiana o compagniana che fosse, a suo modo e nonostante la liberal-democrazia
(era questa la cultura), ha provato a fare diventare egemone la cultura liberal-democratica, ha
provato una cosa molto intelligente e che raccomando sempre, le idee possono anche nascere come
parzialità ma l’importante è che queste idee che sono nate come parzialità divengano universali,
comuni, condivise. Insomma dietro di ciò c’è l’egemonia di cui parla Gramsci, far diventare senso
comune quello che all’inizio è patrimonio di uno, “Nord e Sud” ci ha provato, ma anche “Cronache
meridionali” ci ha provato, e naturalmente nessuna delle due è riuscita nel suo intento. Il tetto
invece non ha provato a fare questo (ed è la cosa più bella che mi viene da dire), perché invece ha
provato una strada diversa, non la costruzione di una egemonia, il tetto ha provato una tecnica di
contagio, di contaminazione, non ha avuto remore e lo abbiamo sentito, uno non vuole morire per il
Concilio di Trento. Vedete come è diverso, certo potete dire ma un cattolico gramsciano non può
avere il concetto di egemonia, però il meglio dell’eredità delle tre grandi tradizioni all’opera nella
stesura della Costituzione la cosa più preziosa non è quella che ogni tanto si ricorda, cioè che nella
stesura della Costituzione in fondo ognuno ha messo un po’ del suo, una specie di lottizzazione del
pensare. A vedere meglio la cosa più utile e importante che si fece fu quella di vedere che cosa
poteva essere comune alle tre culture, qualcosa di accettabile dalle altre culture, è cosa ben diversa.
Ecco a me sembra che anni cinquanta, anni sessanta, anni settanta, possiamo continuare
tranquillamente fino ad un certo punto, l’esperienza e il patrimonio che rappresenta il tetto è la
prova che la strada della contaminazione è più importante e anche più interessante e forse è anche
quella che ha più possibilità di riuscita oltre a essere intelligente in sé. A il tetto hanno collaborato
non soltanto i soci fondatori, ma si trovano tanti nomi, se vi prendete la briga di guardare gli indici,
di persone anche molto lontane ideologicamente, non certo ostili o avverse, perché avevano l’onore
di scrivere per questa rivista. Vorrei dire solo un’ultima cosa: cinquant’anni di una rivista sono
tanti, come cinquanta anni di una qualsiasi istituzione culturale. Allora ci ho ripensato, non sapevo
che mi sarebbe stata posta questa domanda se Napoli è cambiata e come è cambiata rispetto agli
anni cinquanta e ho pensato ai cinquanta anni di vita politica della città che corrispondono ai
cinquanta anni di vita della rivista. Sapete che immagine mi è venuta in mente pensando ai
cinquanta anni della vita politica della città? Alle montagne russe, che sono una delle attrazioni più
strane. Bene sapete come ha fatto la nostra città a partire dagli anni cinquanta e sessanta? Bene, ha
fatto le montagne russe, che sono una delle attrazioni più strane al mondo, perché sfruttano una
forza di motore nella fase della salita, poi raggiungono il punto più alto e comincia la discesa con la
forza dell’inerzia e poi un po’ di salita, che però non riesci a scalare fino all’estremità se non ci
fosse nuovamente l’aiuto del motore. Bene, sapete che cosa ha fatto la vita politica di questa città a
partire dagli anni cinquanta e sessanta? Ha fatto le montagne russe, identico e preciso, immaginate
la legge sul divorzio negli anni settanta e poi gli anni ottanta segnalati come periodo del declino, il
craxismo, dopo che si concluse la forza innovatrice di quello che fu chiamata “la marea rossa”, le
giunte rosse a metà degli anni settanta; questa marea rossa, questa avanzata, fece proprio questo
movimento di arrivare fino in cima per poi iniziare questo movimento che ho descritto prima, la
discesa. Poi ho riflettuto anche su una cosa curiosa, gli anni novanta hanno fatto vedere sul piano
locale due giunte Bassolino e al piano nazionale dove il fenomeno delle montagne russe è tornato a
verificarsi, ci avete fatto caso che nel 1994 vince Berlusconi e poi nel 1996 il cantro-sinistra con
Prodi, nel 2001 rivince Berlusconi, nel 2006 di nuovo Prodi e poi nel 2008 ancora Berlusconi. Io
non giudico l’ultimissimo scenario a livello locale e nazionale, perché leggevo che sono finiti gli –
ismi, nessun -ismo è più da utilizzare, l’unica cosa che si può dire è innovazione che si può
applicare ad una evoluzione politica sia della sinistra che della destra, anche se la mia guasta mente
di storico mi fa sempre vedere e pensare che è la destra che riesce a capitalizzare i momenti di crisi
e le situazioni di maggiore disagio. L’innovazione non mi spaventa in sé, mi spaventa quando vedrò
i risultati. Appartengo a quella categoria di persone per la quale l’innovazione in sé mi lascia del
tutto indifferente. Voglio vedere dove porta questa innovazione e quando riuscirò a vederlo, potrò
rispondere alla domanda riguardante la Napoli degli anni cinquanta e quella dell’oggi.
Aldo Masullo
Vorrei innanzitutto ricordare che stiamo festeggiando un grande evento, quello di una rivista che
fino ad ora ha una durata di cinquanta anni. Debbo fare anche una confessione: mi vergogno di due
cose. Lasciando stare i peccati capitali, che ognuno si amministra da sé, ho due peccati veniali. Non
ho mai scritto su il tetto e non ho mai pagato un abbonamento. Lo devo confessare, questo
naturalmente dimostra maggiormente il rapporto di amicizia con Pasquale Colella. Debbo dire che
la rivista il tetto è quello che spesso a Napoli c’è, ma che spesso viene adulterato, cioè il dissenso.
Noi siamo un popolo che dissentiamo sempre, però stranamente dissentiamo per essere d’accordo
con coloro con i quali dissentiamo. Ora, il tetto mi sembra sia un luogo dove si dissente non per
essere d’accordo con quelli con i quali si dissente, ma piuttosto per sottolineare l’importanza del
conflitto, che è il conflitto delle idee. Io credo che il primo dovere di un uomo che voglia mantenere
il rispetto di se stesso è non iscriversi a nessuna chiesa, cosa che è diffifice, bisogna dirlo questo. È
difficile perché la gente si sente sballottolata, indifea e per questo va cercando l’aggregazione. Il
problema è che il consenso si fonda sull’aggregazione; aggragazione significa aderire al gregge,
farsi gregge. Quando tutti ci facciamo gregge, una nazione perisce. E questo è il pericolo dell’Italia.
Senza accorgercene noi ci siamo fatti tutti gregge, perché le cose si sussurrano, ma non si
proclamano, non si sa mai. Questo è un elemento di riflessione drammatica dinanzi al quale ci
troviamo. Il tetto ha sempre suscitato la mia ammirazione perché a partire dalla veste grafica
modesta, povera, questo già significa che non ci sono sovvenzioni che vengono chissà da dove, è
povera, Papa Bergoglio adesso predica la povertà, cosa c’è di più povero di una rivista che
sopravvive soprattutto grazie agli aiuti di Pasquale Colella, in questa forma estremamente, direi,
francescana. Ecco questa rivista con questa veste grafica così povera porta con sé un contributo
altissimo di anticonformismo, di dibattito, di messa in questione di tematiche che affliggono la
nostra società, questo è un punto sul quale assolutamente bisogna avere attenzione. Perché poi la
battaglia che viene fatta su una rivista come questa, questo continuo sostenere il dissenso, questo
continuo porsi contro il consenso consolidato degli interessi e delle chiese appartiene alla dialettica
stessa della vita sociale e morale. Naturalmente nulla di male che molti si aggreghino alle chiese,
ma, direi, un disastro sarebbe se si aggregassero tutti fino all’ultimo. Ecco allora che il tetto mi pare
che sia l’esempio di chi, per quanto isolato, minoritario, non si aggrega, e stimola non la
disaggregazione di fuga, ma la disaggregazione viceversa di messa alla pari delle idee opposte,
perché aggregarsi significa distruggere l’idea, l’idea stessa alla quale ci si aggrega. Una fede senza
l’interno dibattito, senza l’interna dialettica, diventa dogma nel senso peggiore della parola, questo
sul piano religioso, sul piano politico, su tutti i piani. Quindi questo mi pare che sia lo stigma de il
tetto, questo rappresentare in maniera continua, perché poi non sono solo cinquanta anni, ma
cinquanta anni in cui non c’è stato un solo mese in cui questa rivista non sia apparsa, quello che
manca a noi napoletani, la perseveranza, da questo punto di vista direi che il tetto non è una rivista
napoletana, è una rivista all’insegna della perseveranza, questa è una cosa molto importante da
riconoscere. Ma poi c’è un altro elemento, e cioè questa rivista, è stato anche detto in qualche
articolo della rivista, rappresenta proprio quello che diceva D’Agostino, la contaminazione. Ora, la
contaminazione, faccio un’osservazione mi si permetta critica, perché la contaminazione in Italia è
avvenuta con la Costituente? Perché le grandi trasformazioni o avvengono all’improvviso, o non
avvengono. Questo è vero anche sulla base delle scienze psicologiche, cioè in fondo la nostra
volontà è quella che più si ferma a pensare e a soppesare e meno passa all’azione, ricordate Sarte, il
gruppo infusione, quando il popolo di Parigi indignato, sollecitato dall’illusione di fare chissà che
cosa, di rovesciare il re, corre ad assalire la torre, in quel momento non ci sono più i singoli
individui, c’è la fusione, c’è la forza della fusione ed è solo la forza della fusione che cambia le cose
e per questo si parla di rivoluzione, non nel senso galileiano, ma nel senso del riuscire a sconfiggere
una situazione di fatto, una situazione stagnante. E allora quello che veramente rappresenta il tetto è
un luogo e uno strumento di contaminazione che mantiene la mobilitazione del contaminarsi,
quando in un lungo periodo storico, per lo meno lungo rispetto alle nostre vite, si viene diluendo
inevitabilmente quella che è la forza pulsionale della contaminazione e perciò la Costituente italiana
trova oggi tante difficoltà, è nata in un momento, in quell’istante. Perciò o noi siamo capaci di
mantenere fermi quelle ragioni per cui è nata o viceversa essa è come una nave in gran tempesta.
Quello che io ritengo dunque essere il merito di una rivista come il tetto è quello di mantenere
calde, come si fa per certi cibi già cotti ma ancora commestibili, queste ragioni che altrimenti
finirebbero. C’è una paradossale forza di conservazione, però non è la conservazione di ciò che
interessa i conservatori, ma la conservazione di una carica rivoluzionaria che, essendo in un certo
momento della storia maturata, è stata poi in qualche modo messa in stand-by. È una riserva, questo
mi sembra essere un grande merito della rivista. Perché la destra capitalizza lo scontento? Il tetto
capitalizza il dissenso, la destra capitalizza il disagio. Ma perché? È lo stesso motivo per cui in
genere la destra vince e la sinistra in genere perde. La destra ha chiaro che cosa vuole, vuole
conservare ciò che c’è e quindi è realistica, si appoggia alle cose. La sinistra, invece, vuole
cambiare, il cambiamento non è ciò che abbiamo davanti, ma riguarda quello che dovrebbe essere
ciò che sostituisce ciò che abbiamo davanti. Non lo abbiamo già, lo dobbiamo immaginare e
ognuno lo immagina in un modo diverso. Allora tot capita, tot sententiae. Nessuna posizione
politica nella storia è tanto sinistrata quanto quella della sinistra. È la potenza trasformatrice della
sinistra che porta con sé il suo inevitabile peccato. Ecco, una rivista come questa, mi pare, che abbia
la funzione di raccogliere, anzi che lasciare disperdere dentro di sé queste energie di trasformazione
che si manifestano nel dissenso e renderle in qualche modo capaci di intrecciare un discorso di
lungo respiro. Ecco la funzione di una rivista, un libro o è eterno o tramonta dopo un giorno, la
rivista, invece, non è un qualcosa di fatto, la rivista è un qualcosa che si va facendo e quindi segue
via via il corso delle trasformazioni e quindi via via si adatta alle situazioni che cambiano. Poi non
voglio essere assolutamente intemperante, ma voglio ricordare che il tetto ha compiuto delle grandi
battaglie civili: fra l’altro ci sono numeri della rivista che si occupano molto della scuola, essendo io
un modesto uomo di scuola ritengo che la scuola sia la chiave di tutto, io ricordo sempre, quando
vado nelle scuole, che scuola viene da scolé, scolé è una parola greca che non significa scuola in
quanto istituzione che noi frequentiamo, scolé è il luogo dove la gente può incontrarsi e
confrontarsi, giovani e anziani si confrontano, quindi la scuola è un centro di pensiero critico. Non è
che io divento critico rimanendo a casa, io divento critico soltanto se mi confronto con gli altri, la
scuola è il luogo di confronto. Laddove io dico sempre quando ero professore mi domandavo della
differenza tra professori e studenti e mi chiedevo: “ma allora chi diventa professore non studia più
perché non è più studente?”. Invece dovremmo ricordarci tutti che è fondamentale continuare a
studiare sempre. Uno dei difetti di questa Italia sta proprio nel fatto che non si studia più. Questa
rivista si è occupata ad esempio della riforma universitaria, dicendone peste e corna, e sono
perfettamente d’accordo. Io sono un uomo che male tollera le autocelebrazioni, ma in questo caso ci
vuole per una ragione politica, io sono l’unico parlamentare di centro-sinistra che ha votato contro
la riforma universitaria di Luigi Berlinguer, perché io avevo vissuto l’esperienza di quando
Berlinguer divenne ministro della Pubblica istruzione e intorno a lui c’erano moltissime persone che
sostenevano che l’università andava privatizzata, che i professori, allora c’era ancora la distinzione,
non so se c’è ancora, tra tempo pieno e tempo definito, che era una distinzione prettamente
simbolica, però era comunque una distinzione. Io accettavo di fare il professore e basta, qualcun
altro faceva anche il professionista. Comunque a quei tempi, quando Berlinguer divenne ministro,
quelli del suo gruppo dicevano che questa distinzione era inutile, bastava stabilire quante ore il
professore dovesse fare al’università, tre ore alla settimana, quattro ore alla settimana, bene, poi era
libero di fare ciò che volesse. Qui non bisogna dimenticarsi che a un certo punto la nostra sinistra,
quasi come se avesse un complesso di colpa, è entrata nell’atteggiamento del liberismo spinto e
oggi assistiamo alla situazione che abbiamo di fronte. Allora ecco perchè io, che ho questa
esperienza dolorosissima, trovo in una rivista come il tetto questa capacità di non lasciarsi
travolgere dai facili mutamenti di moda, soprattutto in politica. Una rivista che trova la sua capacità
di resistere non in modo ottuso, ma di resistere mantenendo vivo il dibattito. Ecco di fronte a
questo, io non posso che esprimere il mio rispetto.
Ermanno Rea
Voglio premettere la mia gratitudine nei confronti di chi mi ha onorato di questo invito. Cinquanta
anni di una rivista sono davvero un evento, io ho fatto il giornalista per tutta la vita e so bene che
cosa significa per un periodico durare per cinquanta anni, è una cosa eccezionale, lo è ancora di più
per una rivista che si autodefinisce del “dissenso”. Si parla di dissenso ed è inevitabile parlare del
fatto che la rivista abbia superato gli inevitabili contrasti, sappiamo bene che i custodi
dell’ortodossia combattono la loro battaglia con le unghie e con i denti e non so bene quanti ostacoli
la rivista abbia dovuto affrontare sul suo cammino, ma se siamo qui questo pomeriggio significa che
queste difficoltà sono state superate. Io invece voglio parlare di un altro caso di dissenso che fu
purtroppo stroncato sul nascere e avvenne agli inizi degli anni cinquanta in questa città ed è secondo
me un episodio che merita di essere ricordato anche in questa circostanza per molti motivi, che
cercherò di spiegare in seguito. Il caso al quale faccio riferimento è quello legato al cosiddetto
Gruppo Gramsci, il caso Piegari, molti di voi ne hanno sentito parlare, io stesso ne ho parlato a
lungo nel libro Mistero napoletano, ho raccontato a lungo questo avvenimento fermandomi però a
dopo l’espulsione dal partito comunista del leader e fondatore del gruppo, Guido Piegari, lì io mi
sono fermato e non racconto più nulla. Non racconto più nulla a ragion veduta, pur essendo entrato
in possesso di molte informazioni sulla vita successiva di questo giovane talento, e forse questa
parola è anche riduttiva, Guido Piegari è stato, e non solo a mio giudizio, un uomo geniale. Non ho
detto niente, perché, benché sapessi che si fosse ritirato nella più completa oscurità, sapevo che era
ancora vivente e sapevo che le cose che avevo appreso non potevo dirle, perchè sarebbero state
lesive per Piegari e quindi posseggo un nastro audio inciso con una testimonianza che racconta
questo dissenso, questa espulsione, questa punizione ricevuta dal Partito comunista, che ebbe un
effetto devastante sulla personalità di questo straordinario personaggio, così devastante da portarlo a
una condizione diciamo così di disagio psicologico, per non dire di follia bella e buona. Io mi
riprometto di parlarne. Mistero napoletano fu pubblicato per la prima volta da Einaudi venticinque
anni fa, adesso Feltrinelli sta per ripubblicarlo, io mi riprometto, non ho ancora deciso se farci una
coda proprio per raccontare questo episodio. Perché Guido Piegari subì questa sorte drammatica?
Che cosa diceva? Che cosa proponeva? Le vicende di Piegari mi piace ricordarle perché sono molto
interessanti e hanno un’attualità con le vicende che oggi viviamo. In sostanza, cerco di riassumere
nel più breve tempo possibile, Guido Piegari poneva dei problemi sulla direzione politica del paese.
Si chiedeva se il Partito comunista avesse le carte in regola per aspirare a questa guida dell’Italia e
concludeva che forse queste carte in regola il Pci non le aveva, non ce le aveva perché lui era molto
critico nei confronti di Giorgio Amendola e del Movimento della Rinascita del Mezzogiorno,
perché vedeva in questo Movimento della Rinascita del Mezzogiorno il costituirsi di un blocco di
potere, di alleanze che potevano mirare a fare trionfare il particolarismo. Queste erano le critiche
mosse all’amendolismo. In un primo momento Piegari si illuse che Togliatti potesse dargli ragione,
poi nella realtà Togliatti, secondo la versione che mi ha dato Gerardo Marotta e per quello che
ricordo io, probabilmente si sentiva un po’ in debito nei confronti di Amendola e a lui fu dato il
massimo credito possibile e questa politica, diciamo, di autonomia del Mezzogiorno che
contraddiceva il principio fondante per cui il Partito comunista doveva essere la cerniera tra la
classe operaia del Nord e i contadini del Sud e quindi creare quello Stato imparziale che faceva
proprie tutte le ferite dell’Italia e le avrebbe risolte secondo una scala di priorità indipendentemente
da ogni particolarismo. Insomma il buon Guido Piegari fu liquidato in malo modo e il Gruppo
Gramsci venne smantellato, un caso in cui l’ortodossia fece piazza pulita di un dissenso forte, come
d’abitudine. Loro speravano che si aprisse un dibattito e che l’oggetto della disputa divenisse
argomento di confronto, ma tutto questo non avvenne, il dibattito fu soffocato. La cosa che inquieta
è che non ci fu alcun dibattito per stabilire se avessero ragione o meno, se questa strada imboccata
per il Movimento della Rinascita del Mezzogiorno con le sue trame, le sue alleanze, fosse la strada
giusta o meno. Io credo che poi noi abbiamo toccato con mano come la strada fosse la strada
sbagliata, la strada che poi ha determinato il grande naufragio delle speranze del Mezzogiorno, la
quale questione meridionale che non è mai riuscita a diventare questione nazionale che avrebbe
dovuto diventare. Ora perché dico che c’è un’attualità? Il Gruppo Gramsci aveva tra le sue fila, oltre
a Guido Piegari, anche Gerardo Marotta, il presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici,
che è erede diretto di quel gruppo Gramsci, che con il suo radicalismo, con la sua visione della
centralità dello Stato è se non per tutti i componenti, ma per molti di loro è un gruppo che ha una
sua ispirazione che viene da lontano, dal neo hegelismo napoletano, dall’Università, da Francesco
de Sanctis e dai fratelli Spaventa e così via. Quindi noi abbiamo una tradizione al cui vertice c’è
l’esperienza del neo-hegelismo napoletano, passando per il Gruppo Gramsci, per poi arrivare
all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, il quale istituto vive giorni di agonia veri e propri, un
istituto su cui non è necessario spendere parole. Ho incontrato pochi giorni fa Gerardo Marotta
proprio perché ho intenzione di ritornare alla storia del Gruppo Gramsci e mi sono trovato davanti
un uomo avvilito, è stata una esperienza straziante, una cosa che mette i brividi addosso. È
un’istituzione importante, ricordiamocelo, diamoci da fare, cerchiamo di dare una mano, perché si
esca da questa situazione veramente disperata, una biblioteca di trecentomila volumi, un
monumento al pensiero classico tedesco, ridotta in capannoni industriali a Casoria. Una storia
insomma che mette i brividi a dosso. Io credo che il compito di tutti noi sia per prima cosa
mobilitarci, perchè questa storia venga a risolversi. Io credo anche io che il tetto abbia una funzione
straordinaria, fondamentale anche perché mi sembra essere rimasta l’unica bandiera che siamo in
grado di agitare e dunque agitiamola bene.

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